Da gran tempo non ho più tenuto un diario, ma oggi devo riprendere il mio quaderno; in me c’è infatti una tale rivolta e un tale fermento che devo aprire una valvola di sicurezza se non voglio scoppiare perdendo ogni freno e diventando aggressiva. È davvero triste che io debba tradurre tutta l’energia e la voglia di fare in parole che nessuno ode, anziché in energiche azioni. È un peccato per la mia giovane vita, un vero delitto ai danni della mia mente sana. A che scopo la natura mi ha dato salute e ambizione? Non certo per soffocarle e comprimerle e farle morire nei lacci della vita d’ogni giorno, ma per impiegarle al servizio della misera umanità. Le ferree catene della vita quotidiana: le catene delle convenzioni, le catene del possesso e della comodità, le catene della riconoscenza e del riguardo e, più forti di tutte: le catene dell’amore. Sì, sono queste a reprimere in me, a trattenere in me il rinnovarsi di una vita fiera, l’agire senza riserve nel mondo della lotta e del sacrificio, a cui aspira tutta la mia anima.
O Dio, langoscia mi rende furiosa! Langoscia, che è quasi certezza! La coscienza che alla fine perderò tutto, ogni coraggio, ogni indignazione, ogni impulso all’azione; che esso il mio piccolo mondo mi piegherà, mi farà debole e pusillanime e meschina, come loro sono. Vivere? No, vegetare! Far concessioni, dite? io non voglio far concessioni! Lo vedete bene, l’attuale ordinamento della società è marcio, marcito sino alle radici, sporco e volgare; ma voi non fate nulla per rovesciarlo. Non abbiamo però alcun diritto di chiudere le orecchie alle grida della miseria e di far finta di non vedere le vittime del nostro sistema! Ho ventun anni, e devo tacere e sogghignare come una bambola. Io non sono una bambola. Sono un essere umano in cui scorre sangue rosso e sono una donna con un cuore palpitante. E non posso respirare in quest’atmosfera di ipocrisia e di viltà, voglio fare qualcosa di grande e devo avvicinarmi, almeno un poco, al mio ideale, il mio orgoglioso ideale! Mi costerà delle lacrime? Ma che cosa fare, da che parte cominciare?
Tutto questo ribolle e palpita in me, sento che sta per rompere ciò che lo trattiene! Libertà! Rivoluzione! No, le mie non sono frasi. Io non penso alla liberazione dell’anima: io intendo la reale, tangibile libertà del popolo dalle catene dei suoi oppressori. devo esprimermi ancor più chiaramente? Io voglio la rivoluzione, una grande sollevazione che si estenda in tutto il mondo e rovesci l’intero ordinamento sociale. Vorrei lasciare patria e genitori come una nichilista russa, vorrei vivere tra i più poveri dei poveri e far propaganda per la grande causa. E non per spirito d’avventura! No! Chiamatelo pure impulso all’azione insoddisfatto, se volete, ambizione indomabile. Che cosa importa il nome che si dà alle cose? Per me è come se questo ribollire del sangue sia già qualcosa di meglio.
Oh, soffoco in questa meschina vita quotidiana. Sazia soddisfazione di sé o avidità egoistica, rassegnazione senza gioia o brutale indifferenza: queste le piante che prosperano al sole della vita d’ogni giorno. Crescono lussureggianti, queste piante, e come mala erba soffocano i fiori della nostalgia che sono spuntati in mezzo a loro. Tutto in me trema di paura, paura delle bisce della vita quotidiana, che vogliono avvolgermi con i loro freddi corpi e spegnere in me il coraggio di lottare. Ma già si dispone alla difesa la mia esuberante energia. Io me le scuoto di dosso, devo scuotermele di dosso. Dopo questa notte d’incubo deve sorgere il mattino.
Jannis Kounellis, Senza titolo, 2010 (courtesy Galleria Vannucci, Pistoia)